Il mio compleanno è trascorso nel silenzio dei muscoli contratti.
Questo è un periodo di assenze. Di domande.
Vorrei avere già la soluzione in tasca.
Il mio compleanno è trascorso nel silenzio dei muscoli contratti.
Questo è un periodo di assenze. Di domande.
Vorrei avere già la soluzione in tasca.
Ogni tanto, magari in un giorno di pioggia, fa capolino un desiderio recondito di esplorare ancora i meandri dell’Io.
L’anteriore me contro la posteriore me.
Come un filo sottile ma robusto, che mi leghi le viscere e le parole, ma che voglia a volta snodarle, per vedere che forma hanno, se l’hanno ancora, se ancora sono lì e se hanno la forza di andare dove un’altra forza le spinge.
Quest’anno l’ho fatto in silenzio, senza dirlo a nessuno.
Per il secondo anno consecutivo sono tra i 30 finalisti di un concorso di poesia abbastanza noto.
Se penso che tutte quelle parole sono nate dalla tua inspiegabile assenza, caro A., non me ne capacito.
Avrei preferito averti accanto e non scrivere.
Oggi è stato un giorno qualunque.
Non sono venuta a trovarti perché non ero pronta. Sono indaffarata. Sono abituata al silenzio dei mesi. Sono un nugolo di cenere in cammino.
Fammi sapere quando torni. Anche se so che non torni. Mi provo col fischio di Montale, ma se siamo tutti morti, tu non sei tra noi.
Il vuoto non si può colmare con altro se non con ciò che lo ha causato, diceva la Dickinson.
Falso, vero, non definito. In ogni caso molti di noi convivono con qualcosa che non c’è più. Una parte di se stessi che è andata col tempo, non si sa dove.
Cerchiamo di vivere bene, ingoiamo troppo dolore che poi rimane attaccato alle viscere e ci avvelena col passare degli anni. La parola non basta, dopo le parole siamo molto più soli di prima.
Dovremmo trovare un punto di incontro con il vuoto, con il dolore, con l’altro che non ci assomiglia. Invece navighiamo come pirati nei mari più azzurri, alla ricerca del tesoro nascosto che abbiamo già a bordo.
Una casa sono solo quattro mura. Ma c’era anche un giardino. C’erano le tue mani scolpite nel soffitto, ad aggiustare ogni singola pietra.
L’abbiamo sistemata per altri, che oggi la abitano come fosse loro. E’ loro in verità, ma io la sento ancora mia, vedo te in ogni pezzo di terra, in ogni pianta che ho lasciato, come una puttana per altri.
E tutti gli anni che sono passati a chiedermi se mi avessi perdonato, avrei dovuto passarli a chiedermi se io mi sono mai perdonata.
No, non l’ho fatto. Sogno di ricomprarla, di mandarli via a calci. Di salire su una scala, toccare il soffito e risentire le tue mani.
Si vive come se non ci si vedesse. Gli specchi sono muti, noi mutiamo e ce ne accorgiamo a stento.
Per troppo tempo molte di noi subiscono, non si guardano, ignorano il dolore e vanno avanti nell’incuria di sè.
Quando l’urlo arriva, spesso, è troppo tardi. Il mondo dentro è in rovina.
Serve un nuovo principio, per non essere più bersaglio.
(Quadro di Charming Baker)
E’ tornato il sole e ho subito pensato alle tue ossa candide in un tugurio buio.
Devo venire da te e farti una casa fiorita, la terra era divelta l’ultima volta e non so come sarà adesso. Vorrei portare da te piante di rose e gigli e la camelia che piantasti per me in casa, quando mi chiedevi cosa amassi, che colori volessi vedere al mattino.
Il nostro incontro in questa vita è stato tutto e niente. Abbiamo confuso ruoli e spazi, dimenticandoci di dirci quello che realmente importa.
“Non dovremmo litigare mai”, mi hai detto prima di andartene e sebbene quella fosse l’ennesima dimostrazione della tua debolezza, aveva un senso profondo, era un anatema al contrario, poi rivelatosi atroce verità.
Guardo la poltrona dove leggevi con i tuoi occhiali incordati. La guardo e ti vedo al lume dell’abat jour, chiudere un attimo gli occhi e poi dirmi: “Avrei dovuto studiare”, mentre le tue mani sfogliavano pagine di esperimenti oltre lo scibile umano.
Quasi ti vedo oggi a parlarmi ancora, a stupirti di quante cose ancora so di te, di quanto ancora mi àncora a quel rettangolo di terra confuso tra tanti, laddove sei tu e anche io, uniti alla fine in un cumulo di cenere.
Nessuno e solo se non decide di esserlo.
Sta per venire giù un temporale. Da un po’ di giorni ti penso, come mi succede a intermittenza, mi chiedo se stai bene. Poi capitano quelle foto di amici in comune dove ti vedo sorridente e mi dico: sta bene.
Non riesco a capire perché mi preoccupo ancora di te, le tue scelte sono palesi giorno dopo giorno. Lo sono state da subito, da quando hai eretto il muro che ci ha divisi senza via di ritorno.
Non ti sei preoccupato di nulla. Io solo di te. Anche se mi hai vomitato addosso il tuo disprezzo e ancora non so perché.
Forse un giorno capirai che farsi le proprie finte ragioni per aggregarsi alle pecore e ai pecoroni, anche se ti rende fintamente sereno, non fa di te un uomo. Non un uomo valido.
L’amicizia è diventata silenzio. Il tuo nome è diventato dolore.
Il lavoro è alquanto impietoso ultimamente e non mi lascia spazio. Leggo poco, non guardo più i miei amati film, ma soprattutto non scrivo.
Forse quest’ultima cosa è la più tremenda. Mi sento vuota certe volte, come se le parole finissero ogni volta che termino un articolo.
La mia necessità di esprime i vuoti e i pieni è messa in un angolo. Uscirà nuovamente fuori? Non lo so.
Intanto ho da attingere ai due lutti che mi mangiano le notti in silenzio.
Chiedendomi sempre i perché che non esistono.